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Le riflessioni di Enrico Savelli e Andrea Novelli sullo studio pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology

Dislessia: specializzazione evolutiva? Un commento all'articolo di Taylor e Vestergaard

24 Gennaio, 2023

Nei mesi scorsi l’articolo degli studiosi Helen Taylor e Martin David Vestergaard, Developmental Dyslexia: Disorder or Specialization in Exploration?”, pubblicato su Frontiers in Psychology, ha suscitato un certo interesse nell’opinione pubblica e in particolare nella comunità delle persone con disturbi specifici dell’apprendimento.

Dislessia come specializzazione cerebrale per le attività di esplorazione e ricerca

Gli autori avanzano l’ipotesi, certamente plausibile e ben articolata sul piano teorico, ma al momento piuttosto speculativa, che sia improprio considerare la dislessia un “disturbo”, e che essa potrebbe essere frutto di una specializzazione cerebrale per le attività di esplorazione e ricerca; una specializzazione che ha rivestito un ruolo funzionale di notevole importanza nell’evoluzione culturale della specie umana, e che sarebbe stata particolarmente utile al suo adattamento in contesti ambientali mutevoli, in cui lo sfruttamento delle risorse esistenti è meno essenziale della ricerca di nuove fonti di approvvigionamento. Solo recentemente (negli ultimi 100 anni) questa caratteristica neuro-funzionale ha assunto una connotazione negativa in relazione alla necessità sociale di apprendere il linguaggio scritto, che in definitiva è solo un’invenzione culturale.

Gli autori propongono che questa specializzazione si fondi su un peculiare assetto dei circuiti cerebrali, dal quale deriverebbero specifiche caratteristiche nel funzionamento cognitivo, evidenziabili a diversi livelli funzionali: dalla percezione, all’attenzione alla memoria, al ragionamento. I dislessici si distinguerebbero per una modalità di elaborazione dell’informazione più olistica e globale a scapito di una focalizzazione sui dettagli. Questa modalità li penalizzerebbe in attività come la decodifica nella lettura e nella scrittura (che una volta appresa diventa un'attività ripetitiva che tende ad automatizzarsi in virtù della ripetizione della stessa procedura più e più volte), ma li avvantaggerebbe in attività che richiedono di stabilire nuovi collegamenti tra informazioni diverse. Da qui una maggiore propensione verso il pensiero creativo e divergente. Sul piano delle scelte professionali questo peculiare funzionamento cognitivo si rifletterebbe nella più spiccata presenza di dislessici nelle professioni artistiche e imprenditoriali, che richiedono estro e creatività.

Creatività e talento

L’idea che i dislessici siano persone creative e di talento non è nuova (si veda il libro di Ron Davis “Il dono della Dislessia”), anche se due recenti meta-analisi (Erbeli et al., 2022; Majeed et al., 2021), dopo un esame della letteratura esistente al riguardo, hanno messo in discussione questa comune assunzione, arrivando alla conclusione che non sussistano ancora evidenze esaustive e vi sia necessità di ulteriori studi. (Erbeli et al., concludono “…Altogether, our results suggest that individuals with dyslexia as a group are no more creative or show greater variability in creativity than peers without dyslexia…”; similmente Majeed et al., concludono “…Overall, the current findings provide limited support for the idea that individuals with dyslexia are more creative, and that past evidence of this relationship may be limited to adult samples…”).

La definizione di dislessia come “disturbo” e come “neurodiversità”

Un altro aspetto problematico dell’articolo di Taylor e Vestergaard è relativo alla definizione di Dislessia come disturbo dell’abilità di lettura. Giustamente gli autori fanno osservare che l’abilità di leggere e scrivere è un prodotto relativamente recente (risalente a non più di 5-6.000 anni fa), dell’evoluzione umana, ed essendo frutto di una mediazione culturale, sarebbe scorretto considerarla un “disturbo”, cioè il frutto di un’anomalia nel funzionamento cerebrale, dal momento che è altamente improbabile che la selezione naturale, in un tempo così relativamente breve, abbia favorito lo sviluppo di aree e circuiti cerebrali specializzati per questa abilità. Quest’ultima assunzione è ampiamente condivisa dai neuroscienziati, ma alcuni di essi (ad es., Stanislas Dehaene) hanno proposto che le abilità di letto-scrittura poggino su un substrato neuronale che inizialmente sarebbe dedicato ad altre funzioni cognitivo-linguistiche e che verrebbe reclutato nel momento in cui gli individui si devono confrontare con il compito di apprendere queste nuove abilità (teoria del “riciclaggio neuronale”). Altri autori (ad es. Geschwind) hanno anche proposto che i circuiti neuro-funzionali della letto-scrittura si formino attraverso la creazione di nuovi collegamenti tra specifiche aree cerebrali e la dislessia deriverebbe dalla mancata connessione di queste aree.

Inoltre, anche se non nasciamo con una predisposizione a diventare alfabetizzati (e infatti dobbiamo apprendere queste abilità attraverso un processo di istruzione esplicita che dura alcuni anni), è innegabile che queste abilità abbiano assunto un’importanza vitale, soprattutto nelle società ad elevato tasso di sviluppo tecnologico, e il loro mancato o insufficiente apprendimento può avere ripercussioni sul piano dell’adattamento personale e sociale delle persone. Non dimentichiamo che, oltre ad alcuni premi Nobel, tra i dislessici esistono anche tante persone che non ce l’hanno fatta e che a causa degli insuccessi scolastici hanno abbandonato precocemente gli studi, adattandosi a soluzioni lavorative di ripiego.

Al di là dell’articolo di Taylor e Vestergaard, negli ultimi decenni vi è stato un persistente fastidio e un progressivo rigetto a concepire la Dislessia come un disturbo e si è preferito sostituire questo concetto con quello di “neurodiversità”, che viene considerata una caratterizzazione più appropriata e accettabile delle difficoltà che alcune persone (tra il 5 e il 15% della popolazione, secondo il DSM 5) incontrano a leggere e scrivere.

Effettivamente è corretto asserire che le abilità di lettura e scrittura non fanno parte del nostro repertorio comportamentale di base, come lo sono invece il camminare o il parlare, essendo abilità troppo recenti per essere entrate a far parte della nostra dotazione genetica. Altrettanto corretto è riconoscere che lo sviluppo di queste abilità, come quello di molte altre abilità umane, si distribuisce normalmente nella popolazione, con gradi di efficienza anche molto eterogenei.

Per esempio, anche nella corsa, un’abilità umana filogeneticamente molto più antica della lettura, pochi individui sono in grado di correre i 100 metri in 10 secondi, mentre alla stragrande maggioranza ne occorrono almeno 20 o 40 e pochi hanno bisogno di più di 60 secondi. Questi ultimi sono sicuramente meno dotati in questa particolare abilità, ma per alcuni si potrebbe ipotizzare che questa eccessiva lentezza derivi da un’anomalia (o disturbo) dei sistemi biologici (neuromotori, musco-scheletrici, cardio-respiratori, ecc.) che concorrono a sostenere l’abilità nel correre.

Analogamente l’abilità di leggere, pur essendo frutto di un adattamento culturale, più che di una predisposizione innata, si manifesta con vari gradi di efficienza nella popolazioneColoro che leggono troppo lentamente, solitamente vengono definiti “dislessici”, sulla base di una determinata distanza dai valori medi attesi per l’età, senza che questo implichi che alla base di questa inefficienza sia presente un disturbo, anche se potrebbe essere legittimo assumerlo, e la ricerca neuroscientifica in questo ambito ha contribuito a evidenziarlo con chiarezza negli ultimi decenni attraverso le metodiche di neuroimmagine (Richlan, 2020).

In ogni caso, al di là delle anomalie che vengono consistentemente riscontrate nei pattern di attivazione cerebrale dei dislessici rispetto ai normolettori, l’idea che la Dislessia possa legittimamente essere caratterizzata come un “disturbo” risale agli studi della neuropsicologia ottocentesca (ad es., Dejerine) che descrissero i primi quadri clinici di soggetti adulti con Dislessia acquisita a seguito di un qualche tipo di danno cerebrale. Cioè, noi possiamo anche perdere la capacità di leggere, in tutto (alessia) o in parte (dislessia) dopo averla normalmente acquisita, in seguito a una qualche forma di lesione cerebrale in aree specializzate del cervello.

Per i primi studiosi che descrissero i quadri della Dislessia Evolutiva (ad es., Morgan) verso la fine dell’800, fu abbastanza naturale ipotizzare, in analogia con i quadri clinici riportati nell’adulto, che le difficoltà osservate nella lettura di bambini e adolescenti potessero dipendere da analoghe cause biologiche e, in assenza di lesioni conclamate, ipotizzare un malfunzionamento costituzionale delle aree cerebrali, che sulla base degli studi di lesioni, risultavano presumibilmente essere deputate alla lettura; un’ipotesi che circa un secolo dopo è stata confermata dagli studi di neuroimmagine funzionale che indicano l’ipoattivazione nei dislessici di quelle stesse aree, o la disconnessione tra aree critiche per il processo di lettura.

La complessità della ricerca e il ruolo della genetica

Pochi avrebbero dubbi nel considerare i quadri clinici di Dislessia Acquisita dei veri disturbi, in quanto la perdita dell’abilità può essere direttamente ricondotta a una causa nota. Viceversa, per quanto riguarda i quadri clinici della Dislessia Evolutiva, la questione è più problematica, in quanto non siamo di fronte a cause organiche chiaramente definite e identificabili, anche se la ricerca neurobiologica ha fatto passi da gigante negli ultimi decenni nel tentativo di evidenziarne le possibili basi genetiche e le relative disfunzioni nelle aree cerebrali interessate. 

Il problema è che più la ricerca in questo ambito va avanti, più il quadro complessivo diventa complicato e, all’idea illusoria di potere identificare il “gene” della dislessia, si contrappone la constatazione più realistica di una pluralità di geni (in un recente articolo di Doust et al., pubblicato nel 2022 su Nature Genetics se ne contano fino a 42) che individualmente o in interazione tra loro concorrono allo sviluppo dell’abilità di lettura, e questo in sinergia con una pluralità di fattori ambientali. 

Tutto questo per dire che siamo ancora lontani dall’avere identificato le cause (biologiche e ambientali) della Dislessia Evolutiva e, almeno per ora, dobbiamo accontentarci di identificarla attraverso test idonei a valutare l’efficienza della lettura. Ma siccome, come abbiamo già visto, la lettura è un’abilità che varia in modo continuo nella popolazione, stabilire delle soglie convenzionali (tipicamente -2ds o <5° percentile) oltre le quali assumiamo la presenza di un “disturbo” resta indiscutibilmente un’operazione in qualche misura arbitraria, ma allo stesso tempo utile per tutelare le persone che a causa di questa inefficienza rischierebbero di vedere compromesse le loro possibilità di adattamento personale e sociale ad un ambiente in cui le competenze di lettura e scrittura sono diventate via via sempre più indispensabili.

Tornando alla questione sollevata in precedenza, a nostro avviso i concetti di “disturbo” e di “neurodiversità” non sono incompatibili, ma piuttosto riflettono modalità di guardare a uno stesso fenomeno da angolature diverse.

In questo senso, alla luce delle conoscenze attuali sulle basi neurobiologiche della Dislessia Evolutiva, è certamente corretto caratterizzarla come una neurodiversità, ma ci sembra altrettanto corretto caratterizzarla come “disturbo”, quando questa inefficienza nella lettura raggiunge soglie che interferiscono con le possibilità di adattamento delle persone al loro ambiente sociale.

a cura di Enrico Savelli, psicologo clinico dell'età evolutiva, formatore tecnico AID, e Andrea Novelli, psicologo, psicoterapeuta, presidente AID

 

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