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La riflessione di Antonella Trentin, genitore e Vicepresidente AID, in chiusura dell'anno scolastico

I diritti negati degli studenti con DSA: lettera aperta alla scuola

24 Gennaio, 2023

Come madre di un ragazzo dislessico, o semplicemente come genitore, mi piacerebbe scrivere (con qualche presunzione) una lettera aperta alla scuola italiana, ai docenti e ai dirigenti. Una lettera a chiusura dell’anno scolastico. Quando si fanno i bilanci.

La scuola, a dire il vero, io la “frequento” da un osservatorio speciale: da anni ricevo le telefonate di genitori della sezione AID di Roma, per cui curo l’help line, ma mi chiamano spesso anche da altre parti d’Italia. Certo, nessuno mi contatta per raccontarmi quant’è bella la scuola, accogliente e inclusiva, ma per parlarmi di incomprensioni, diritti negati, e dolore, tanto dolore da parte dei ragazzi.

So bene che, di contro, esiste una scuola, e cioè maestri e professori, d’eccellenza, persone entusiaste, appassionate, curiose dei propri studenti, fieri di vederli migliorare, insegnanti dotati di competenza e qualità umane, che spesso non ricevono adeguati riconoscimenti.

Però, dal mio osservatorio più triste, ho l’impressione di assistere a un’involuzione importante, anche se parziale, della scuola italiana.

Sta tornando pericolosamente indietro: rispetto alla sensibilità diffusa, alle conoscenze acquisite sui disturbi specifici dell’apprendimento, alla didattica personalizzata e individualizzata, che la legge 170/2010 ci aveva regalato.

Regalato, sì. Perché la legge 170, dodici anni fa, è stata una grande riforma che ha posto i docenti di fronte all’emozionante sfida di interrogarsi sul proprio metodo di insegnamento, sulle dinamiche dell’apprendimento, sull’uso di software compensativi, sulla fatica ma anche sull’arricchimento che rappresentano le diversità nella classe. A volte di tutto questo sembra essersi persa traccia.

E non bastano due terribili anni di pandemia, di DAD e didattica integrata a giustificarlo. Il ministero ha cercato con diverse circolari di guidare le scuole verso l’inclusione, ma queste linee di indirizzo vengono ignorate da molti docenti in nome di una supposta libertà di insegnamento. Potremmo definire questi insegnanti le “mele marce” della scuola, ma quando diventano troppe, occorre chiedersi se il problema non sia sistemico.

Ascanio, Fiammetta, Ernesto: tre storie di diritti negati

Vorrei raccontarvi tre storie, tra le molte, che si sono affacciate al mio cellulare negli ultimi mesi.

Quella di Ascanio, ad esempio. Diciassette anni, brillante, studente modello di un rinomato liceo classico del Centro Sud. Ascanio ha un DSA misto, un QI stellare, e soprattutto ama incondizionatamente la scuola. In italiano, latino, greco e filosofia ha tutti 8. Anche perché studia come un pazzo. Troppo. Nessuno spazio per lo svago. Ascanio andrebbe bene anche in fisica ma è sorta un’insanabile incompatibilità con il suo giovane insegnante.

Il primo incidente ha riguardato la certificazione di DSA che Ascanio, come molti ragazzi, non voleva fosse nota ai compagni. Peccato che il professore un giorno abbia esordito candidamente: “Non posso interrogare Ascanio, perché è handicappato, e ha diritto alle interrogazioni programmate”. Ascanio soffre di epilessia e per lo stress, la vergogna, e l’impaccio si è sentito male. L’episodio si è concluso con un ricovero in ospedale. La stessa crisi si è ripetuta, mesi dopo, all’inizio di un compito in classe, sempre di fisica, cui è seguito un altro ricovero. Lo stress, dicono i medici, non è la causa ma favorisce talvolta l’insorgenza delle crisi.

Il professore non ha mai chiesto come stesse il ragazzo, non gli ha parlato quand’è tornato a scuola. Gli ha messo 2 al compito che non ha fatto a causa del malore. E malgrado Ascanio abbia due 7 all’orale, ha deciso di delegare al consiglio di classe la decisione se dargli un debito da riparare a fine estate. Voi che voto dareste a questo professore? Che voto in empatia, in capacità di immedesimazione, in attenzione verso il prossimo? L’insegnamento non dev’essere per forza una vocazione, ma come si vede non è per tutti.

E la sofferenza patita da Fiammetta, nel primo anno di liceo scientifico, a Roma? Nessun professore le ha concesso il tempo aggiuntivo nei compiti in classe benché fosse scritto nel Piano didattico personalizzato. “Vuoi usare le mappe? Sei impazzita? Così copi durante la verifica!” l’ha ammonita la professoressa di italiano. E quella di inglese ha preteso che imparasse tutte le regole grammaticali a memoria. Salvo negarlo, quando lei in lacrime, davanti a tutti i compagni ha detto che non ce la faceva. Un altro insegnante, in uno slancio d’onestà, ha chiesto alla madre di Fiammetta: “Ma poi cosa sarebbe sta dislessia?”. Ora Fiammetta non vuole più andare a scuola e, anche se la famiglia vincesse il ricorso, sarà difficile restituirle la spensieratezza di prima.

Infine, Ernesto, 17 anni, studente di un liceo linguistico di una città del Nord, liceo finito sui giornali per le sue pratiche non propriamente inclusive. Diversi professori gli hanno negato strumenti e interrogazioni programmate, “un illecito vantaggio”. Finché il ragazzo ha mostrato segni di insofferenza, ha risposto male come può capitare a un adolescente. Risultato: i professori si sono irrigiditi con l’intera classe dando la colpa a Ernesto. E i compagni hanno chiesto a Ernesto di andarsene, perché creava solo problemi. Non c’è stata alcuna mediazione da parte dei docenti, gli adulti si sono defilati. Così i genitori, disperati, hanno dovuto portare il ragazzo in una scuola privata per concludere l’anno. Ed Ernesto è rinato, prendendo voti alti in diverse materie.

Come AID suggeriamo vie d’uscita a queste famiglie, spesso strategie di sopravvivenza, lezioni di dialogo con professori e dirigenti, solo in casi estremi le vie legali. Intavoliamo confronti con il ministero dell’istruzione. Per una didattica davvero inclusiva. Ma non basta. È vero, i genitori e anche i ragazzi hanno precisi doveri da rispettare, mentre spesso scelgono un atteggiamento aggressivo e non collaborativo nei confronti dei docenti.

Ognuno deve fare la sua parte. Per questo serve una vera riforma della scuola.

Finché il merito e il demerito grave non saranno riconosciuti anche tra i docenti, i voti si daranno soltanto ai ragazzi, la formazione non sarà obbligatoria, la conoscenza non sarà un valore per tutti, e chi insegna non si assumerà la responsabilità e le conseguenze dei sogni spezzati dei propri allievi…servirà a poco parlare di rispetto dei Piano Didattico Personalizzato.

Antonella Trentin, genitore e Vicepresidente AID

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